L’emigrazione culturale. Editoriale di Aldo Berlinguer, L’Unione sarda 31 maggio 2024

 

Mi capita spesso di incontrare persone, provenienti da regioni del Mezzogiorno, che si vantano di avere mandato i propri figli a studiare in Università, molto spesso private, del nord, in particolare di Milano.
La soddisfazione aumenta se poi, a distanza di qualche anno dalla laurea, il giovane riesce a farsi assumere da qualche nota Multinazionale. Con il che, l’investimento sembra aver dato i suoi buoni frutti.

Alla domanda del perché di una siffatta emigrazione, la risposta è quasi sempre la stessa: cosa sarebbero rimasti a fare? Che avrebbero mai potuto fare qui?
Ecco quindi un diverso, e spesso poco indagato, fenomeno di emigrazione che non è necessitato dalle condizioni economiche del migrante (anzi molto spesso ad emigrare sono i figli dei più abbienti ) ma da motivazioni culturali.  E da una diffusa sfiducia sulle possibilità che interi territori del Mezzogiorno possano riscattarsi dalle condizioni in cui versano.

In effetti, c’è tutta una mentalità dietro queste scelte. Quella di chi antepone culturalmente la dimensione familiare a quella comunitaria e, non volendo investire su quest’ultima, cerca di soddisfare i soli bisogni della prima, senza capire che le due sono inscindibilmente connesse.
Ma l’investimento non è proficuo, men che meno redditizio. Infatti, a valle di simili scelte sì determinano le note, inevitabili conseguenze, che affliggono il Mezzogiorno.

Banalmente, l’investimento che un padre di famiglia svolge a beneficio di ciascun figlio è pari ad almeno 100.000 euro. Tanto costa inviare uno studente, per 5 e più anni, a studiare in un’Università privata milanese. E tale investimento quasi mai trova, per queste persone, un ritorno adeguato.
La stragrande maggioranza dei figli emigrati in Lombardia, o altre regioni del settentrione, fatica infatti ad inserirsi nei nuovi contesti economico-sociali e finisce col prestare manovalanza a basso costo alle multinazionali, con stipendi che almeno nei primi dieci anni non eccedono quasi mai i 2000 euro mensili. Il che significa che, di questo passo, l’investimento, per oltre vent’anni dal suo inizio, non si ripaga.

Molto spesso i giovani, dopo anni di lauti affitti, si decidono ad acquistare un’abitazione, indebitandosi con altrettanti mutui. La domanda cresce così esponenzialmente in Lombardia e sale di conseguenza il valore degli immobili, mentre quelli che la famiglia possiede nel Mezzogiorno si deprezzano con altrettanta velocità, visto che sempre meno gente chiede di comprarli.

Cresce anche proporzionalmente il pil del centro-nord visto che i redditi che i genitori percepiscono al sud vengono spesi altrove. Così, oltre a calare demograficamente, il sud si deprime economicamente.

L’eradicazione dei migliori giovani, o quantomeno di quelli con maggiori mezzi, porta inoltre ad un depauperamento del tessuto sociale, con un correlato invecchiamento della popolazione e un conseguenze squilibrio tra contributi e pensioni. 

Ma lo spopolamento genera anche ulteriori discrasie; come, ad esempio, per la spesa destinata agli investimenti e infrastrutture, la quale, ancorata alla regola del 34% della popolazione, si riduce al pari del dato demografico. Non parliamo della sanità: una popolazione più anziana ha bisogno di maggiori cure e ne trova sempre meno.

Insomma, invece di chiedersi come poter contribuire a generare ricchezza per sé stessi e il proprio territorio, si salvi chi può. E se ne vanti pure. Una forma di emigrazione, dunque, forse più nefasta delle altre, perché fondata su ragioni culturali e sulla totale mancanza di spirito comunitario, nota e anitica tara del Mezzogiorno. Il bello è che ne sono affette, anzitutto, le locali classi dirigenti, prime fra tutti a far migrare i figli verso luoghi dorati.  

Così, il nocchiere, al timone della nave, pensa anzitutto a come discenderne, riservandosi una scialuppa prima ancora di intravedere un naufragio. Poi, con la scialuppa (non più con la nave) si rassegna, da solo, ad affrontare il mare.

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