Contributo di Aldo Berlinguer per l’Ortobene dell’11.1.2023

Il percorso di Benedetto XVI visto da un laico

Sono tante le parole e i tributi che si sono spesi, negli scorsi giorni, al capezzale del Papa emerito, Benedetto XVI. Così tanti da riempire, all’improvviso, il silenzio assordante che si era coagulato, in ormai tanti anni, attorno a questa figura, la quale, come sempre succede, assurge a maggior notorietà (ed è più amato) da morto rispetto a quando era vivo.

Ma l’impressione che se ne trae è che, all’uomo della strada, più delle parole abbiano colpito i gesti, le immagini che questo Papa ha lasciato di sé. Tre, in particolare, la sua riservatezza, la sua compostezza e la sua onestà: quella che tutti riconoscono nel gesto che egli, quasi unico nella storia, ha compiuto, ormai quasi dieci anni orsono, rinunciando al soglio pontificio. Non credo che ai più sia risultato chiaro il perché di questa scelta la quale, probabilmente, non si deve solo alla salute del rinunciante. Ma tant’è.

Certo, gli esperti tratteggiano un quadro ben più complesso, nel quale spicca lo spessore culturale di Benedetto XVI ed anche la sua inclinazione a rinchiudersi in riflessioni teologiche, anche molto complesse, rispetto alla ben più marcata socialità dell’attuale pontefice, visto dai più come un autentico pastore. Ma è tutto qui? Qualcuno ha azzardato una riflessione originale: Benedetto XVI è stato un Papa di transizione, che ha saputo cogliere ed incarnare una tappa intermedia tra Giovanni Paolo secondo e Papa Francesco. Ma allora qual’è il percorso che la chiesa sta compiendo? E quale quello che, a giudizio comune, dovrebbe compiere?

Forse la risposta la si trova in alcune affermazioni di Benedetto XVI che mi hanno particolarmente colpito. Ad esempio: “..la chiesa non deve piacere al mondo, deve piacere ai suoi fedeli”, essa non deve cedere alla tentazione di “ridurre i preti ad assistenti sociali” e la propria opera a mera “presenza politica”. Da simili affermazioni sembrerebbe emergere l’idea di una Chiesa che recupera la sua immanenza, una dimensione evangelica orientata alla riflessione teologica piuttosto che alle miserie umane che questo mondo, ci piaccia o no, va vieppiù ospitando. E forse questa è una dimensione che, in effetti, va recuperata e coltivata, proprio per mantenere limpida la distinzione tra la religione, che contempla la trascendenza, e l’esperienza umana, che trascendente non è. E per evitare che la chiesa incontri il plauso dei fedeli nella misura, esauriente e totalizzante, di quanto bene essa riesce a fare su questa terra.

Ma è anche vero che, se la memoria non mi inganna, l’invincibile attrazione che la fede cristiana esercita sui cultori, gli intellettuali ma anche le grandi masse popolari, risiede proprio nella dimensione trascendente e umana che Cristo volle incarnare al contempo, partecipando alle vicende degli uomini, dal basso, e avvertendole, con sofferenza, in prima persona.

Mi han sempre colpito, infatti, le parole della lettera di Isaia (1,3), richiamate proprio nel libro di Benedetto XVI (L’infanzia di Gesù), nelle quali si narrava che anche “il bue conosce il suo proprietario e l’asino la mangiatoia del suo padrone, mentre Israele non conosce e il mio popolo non comprende”. Ecco quindi la raffigurazione di Gesù, neonato, all’interno della mangiatoia, per farsi avvertire e comprendere nei luoghi e nelle condizioni più umili della vita popolare. Ricordo anche, ma potrei sbagliarmi, l’episodio di Zaccheo (Luca XIX, 1-10) il quale, capo-pubblicano, basso di statura, ambiva a diventare giudice per guardare tutti dall’alto. E per vedere Gesù salì sull’albero di sicomoro. Gesù si recò infatti a Gerico (il luogo più basso del pianeta: -240 mt sotto il livello del mare) e accettò ospitalità nella casa di Zaccheo, invitandolo a scendere dal suo piedistallo. Gesù intese infatti vestirsi dei panni più poveri e umili per insegnarci che proprio l’umiltà è l’angolo di visuale da preferire. Le vicende umane si possono infatti comprendere solo se le si guardano dal loro interno; da un punto di osservazione più basso possibile perché, viste dall’alto, non si comprenderebbero appieno.

Insomma, voglio dire che proprio nella dottrina cattolica è possibile rinvenire i germi di una visione pastorale che la chiesa non può trascurare al pari di quella, forse più sofisticata e complessa, della riflessione teologica. Il rischio, infatti, non è quello di piacere al mondo e non ai propri fedeli ma quello di rinchiudere l’esperienza di Gesù in una dimensione contemplativa che è solo una parte del tutto (e non una sineddoche).

Saranno forse, queste mie, riflessioni avventate, in un terreno che conosco a malapena e sul quale tantissimi saprebbero orientarsi molto meglio di me. Vero anche che molte problematiche interne alla chiesa presumo che di spirituale abbiano ben poco e che sfuggano, in buona parte, agli stessi Papi, i quali sono anzitutto uomini di fede, non manager finanziari. Per cui temo che molti interrogativi che ancora campeggiano attorno al gesto compiuto da Benedetto XVI, restino senza risposta.

Tralasciando tuttavia vicende che non conosco, potrei sintetizzare le mie sensazioni come segue: se Papa Ratzinger ha rappresentato una tappa di un percorso, forse quest’ultimo potrà dirsi concluso solo quando ambedue, la dimensione teologica e quella pastorale sapranno intrecciarsi al meglio, coltivando la trascendenza ma anche i tanti bisogni degli ultimi, dei diseredati che, in questo nostro pianeta, specie con l’aumento demografico, si vanno moltiplicando. E di cui qualsiasi istituzione, che voglia leggere il presente e non solo il passato, in qualche modo deve farsi carico.

Se questo piacerà a più o meno persone, sarà la storia a dirlo. Comprendere i bisogni, le istanze e le sofferenze dell’oggi non significa infatti rendersi terreni e perdere la propria spiritualità. Significa forse portare quest’ultima nelle case e nelle vite della gente che ne ha bisogno. Chiunque saprà cogliere questo godrà, io credo, del più ampio apprezzamento; forse non di tutti ma almeno del mio.

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